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Straordinario Bergamotto

DOMANDA: Di quale frutto parliamo oggi?

Il NOME SCIENTIFICO è Citrus Bergamia Risso, della FAMIGLIA delle Rutaceae. È coltivato in CALABRIA dalla metà del Settecento. La PIANTA è un ben strano albero da frutto; infatti, produce esperidi troppo amari per poter costituire, crudi o cotti, un alimento abituale, e la sua importanza economica deriva quasi esclusivamente dall’essenza.

RISPOSTA: È il bergamotto!

ORIGINI

L’origine è ignota e la collocazione botanica controversa (uno dei tanti ibridi di agrumi secondo alcuni, una mutazione del melangolo o della limetta secondo altri… ma intanto ha raggiunto lo status di specie); l’Italia, tramite la Calabria, ne ha pressoché il monopolio mondiale. Più dell’80% della produzione di bergamotti arriva infatti dal basso Ionio reggino: un arco costiero che va da Scilla a Monasterace, passando per località quali, tra le altre, Villa San Giovanni, Melito di Porto Salvo, Bova, Branca leone, Piati, Gerace, Siderno, Gioiosa e Roccella Ionica, Riace.

Brancaleone, costa del bergamotto

Pare che qui, all’estrema punta dello Stivale (Melito è il comune più a sud dell’Italia peninsulare), la pianta fosse nota già nel Cinquecento, ma il primo impianto specializzato di cui esista documentazione risale al 1750 sul litorale di Reggio Calabria. Il nome, probabilmente dal turco begarmundi (“pera del signore”), farebbe propendere per una provenienza dall’Asia minore; più numerose del solito le leggende sul tema, compresa la fantasiosa ipotesi di un’origine bergamasca. Ma non è escluso si tratti di un ecotipo sviluppatosi in loco.

Fiore ermafordita di bergamotto

È un albero alto tre-quattro metri, con rami nei quali talvolta si riscontrano spine rudimentali all’ascella delle foglie, lucide e coriacee. I numerosi fiori, ermafroditi, per lo più raggruppati in racemi, sono bianchi e molto odorosi. Il frutto, un po’ più grande di un’arancia, di colore dal verde al giallo secondo il grado di maturazione, ha buccia dal profumo floreale, fresco e penetrante, ricchissima di oli essenziali. La polpa, suddivisa in un numero di spicchi variabile da 12 a 15, con pochi semi, fornisce un succo molto acido e amaro.

Bucce dalla fragranza floreale

ESIGENZE PEDOCLIMATICHE

Sole per 300 giorni l’anno, estati calde senza pioggia, inverni miti, inizio primavera e fine autunno molto piovosi: è il quadro climatico del Sud della Calabria affacciato sullo Ionio, evidentemente ideale per la coltivazione. Il bergamotto sopporta bene il caldo, non l’eccessiva o scarsa piovosità e gli sbalzi in basso della temperatura: sotto i 10 °C lo sviluppo si arresta e, se giovane, la pianta muore. Quanto ai suoli, predilige quelli di medio impasto, profondi, fertili e ben drenati, con pH tra 6,5 e 7,5.

Terroir del bergamotto

INDICAZIONI COLTURALI

La pianta da coltivare si ricava tramite innesto su arancio amaro (melangolo) o trifogliato (ponciro). Ha una vita produttiva media di 25 anni: comincia a fruttificare a 3, tocca il massimo a 8. Necessita di acqua, oltre che nei primi anni di crescita, in primavera e in autunno: ma sulla costa ionica bastano le piogge stagionali, sicché l’irrigazione si rende necessaria solo nelle estati molto siccitose. Come e più di sempre, vanno evitati ristagni idrici, pena la marcescenza dell’apparato radicale.

Scorze profumate

STAGIONALITÀ

Sulla costa calabrese i bergamotti si raccolgono tra novembre e gennaio.

IN GIARDINO O IN VASO

Negli impianti commerciali i bergamotti trascorrono il primo anno di vita in vaso (dove, se coltivati a livello amatoriale nelle regioni appenniniche interne o al Nord, devono rimanere), poi vengono interrati in posizione il più possibile assolata e luminosa, a 4-5 metri di distanza l’uno dall’altro. Per ripararli dai forti venti che soffiano dallo Stretto tutto l’anno, nel Reggino si impiantano fitti e alti filari di pino sul lato verso il mare.

Raccolta di frutti di prima maturazione

PROPRIETÀ NUTRITIVE

Come tutti gli agrumi, il frutto contiene quantità elevate di vitamine (C, A, B), sali minerali, poli- fenoli e altri elementi antiossidanti. Se si riesce a berlo, il succo si rivela dissetante, tonificante, eupeptico. Nella medicina popolare la buccia era usata per combattere le malattie respiratorie e per le sue proprietà analgesiche, cicatrizzanti, antisettiche, battericide, vermifughe. Secondo recenti studi, anzi, l’estratto sarebbe in grado di tenere a bada il colesterolo “cattivo” e di aumentate quello “buono”.

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CONSERVAZIONE

Le regole sono praticamente superflue, essendo il bergamotto fresco una rarità: nel caso « ne venga in possesso, è consigliabile tenerlo non in frigorifero ma in un posto fresco (temperatura ideale 8-10 °C). asciutto e buio.

Un verde inconfondibile

USI

Il bergamotto non arriva quasi mai in tavola, anche perché al dettaglio si può acquistare sporadicamente, solo dai produttori che ne trattengono alcuni per l’autoconsumo, vendendo il grosso del raccolto all’industria per la trasformazione in essenza.

I curiosi possono sperimentarlo in spremute, a spicchi in insalate, come condimento di carni e pesci – al posto del limone -, correttivo di bevande (alcune note miscele di te nero sono aromatizzate al bergamotto), scorza con cui decorare i cocktail. I tentativi di incoraggiarne il consumo fresco pare abbiano avuto qualche successo nelle “gelaterie all’italiana” di vari Paesi del mondo.

Liquore di bergamotto

L’impiego principale riguarda le essenze estratte dalla buccia, ma anche dai fiori, dalle foglie e dai rami più giovani. Ottenuto per spremitura meccanica, con macchine pelatrici definite da secoli “calabresi”, l’olio essenziale di bergamotto è un prodotto prezioso: per ricavarne un chilo occorrono due quintali di frutti. Quello lavorato sulla costa ionica reggina, cui è stata riconosciuta la DOP (denominazione d’origine progetta), è esportato in tutto il mondo. La destinazione principale, e più antica, è I’industria dei profumi, come componente di acque di colonia e di toilette, alle quali conferisce, fissandone il bouquet aromatico, una nota fresca e agrumata ritenuta talvolta imprescindibile, ne ricavano anche farmaci e rimedi fitoterapeutici.

Essenza di bergamotto

Prodotti complementari dell’olio essenziale sono il neroli (distillato dei fiori, per saponi e creme idratanti) e il petit-grain (distillato di rametti e foglie, per profumi e schiume da bagno). Applicazioni vagamente gastronomiche hanno gli aromi estratti dalla scorza, usati in liquoreria e confetteria, talvolta anche per “condire” bevande, dolci da forno, paste, oli di oliva.

ESCLUSIVA ITALIANA E CALABRESE

Nella produzione mondiale la Calabria è seguita a grande distanza da alcuni Stati americani sudoccidentali (California, Arizona, Nevada) e da Brasile, Argentina, Israele. Ma in Calabria i bergamotti sono diversi da quelli coltivati in quei territori, perché in questa regione crescono da secoli lungo un’ottantina di chilometri della riviera ionica.

Earl Gray Tea aromatizzato al bergamotto

Dalla scorza dei frutti stranieri, che ha un tenore di oli certamente inferiore, si ricava un’essenza meno pregiata, – rinforzata” nei profumi scadenti con ulteriori sostanze di sintesi. Le lobby dell’industria chimica europea hanno tentato di moltiplicare il loro business, proponendosi di abbattere la concentrazione per legge degli oli essenziali dal 12 allo 0,1%, il che avrebbe favorito i frutti esteri e significato la fine del prodotto DOP di Reggio Calabria. Per fortuna le grandi case profumiere – Chanel, Dior, Guerlain – si sono schierate con il consorzio calabrese: sventato l’attacco, dalla vicenda si è avuta per certi aspetti la conferma che il “vero” bergamotto è un agrume solo italiano, anzi un’esclusiva calabrese.

UNA COSTA PROFUMATA

Il litorale reggino bagnato dal Mar Ionio è spesso chiamato Riviera dei Gelsomini, termine che include la denominazione geografica di Locride. Il territorio tramanda la memoria di una produzione fiorente come quella del bergamotto. Infatti, in tutta la provincia di Reggio Calabria, soprattutto lungo la fascia costiera tra Punta Stilo (comune di Monasterace) e Capo Spartivento (comune di Palizzi), dagli anni Venti alla metà del secolo scorso si coltivavano su larga scala sia i bergamotti che i gelsomini, questi ultimi belle piante rampicanti di origine caucasica, i cui fiori erano destinati in prevalenza all’industria profumiera (evidentemente la vocazione “odorosa” dell’area non è limitata al bergamotto!).

Marmellata di bergamotto

Alla raccolta, manuale, erano addette quasi solo donne e bambine (le gelsominaie), il prodotto era lavorato in loco e l’essenza, insieme a quella del bergamotto, esportata in mezzo mondo, soprattutto in Francia, costituendo un’importante fonte di reddito per gli abitanti. Un’attività praticamente scomparsa, anche se in alcuni paesi della zona si incontrano ancora alcuni laboratori dove si estrae ancora l’olio dai petali dei gelsomini.

CULTIVAR CALABRESI

Fantastico

CARATTERISTICHE: è la varietà più coltivata sui 1500 ettari del territorio rivierasco calabrese piantato a Bergamotto, coprendo il 75% della produzione. È un frutto medio-grande, piriforme, ricchissimo d’oli essenziali.

MATURAZIONE: novembre-gennaio

Femminello

CARATTERISTICHE: Esile albero a crescita rapida, più produttivo di altri ma poco longevo, con esigenze termiche e idriche relativamente elevate. Frutto sferico medio-piccolo a buccia liscia

MATURAZIONE Novembre-gennaio

Castagnaro

CARATTERISTICHE: Varietà molto vigorosa e longeva, resistente al vento, caratterizzata da una forte alternanza produttiva. Frutto grosso e rugoso

MATURAZIONE Novembre-gennaio

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Cultura Enogastronomia

Cucina Achea in Calabria

La Calabria è una delle prime colonie degli Achei, il popolo che precede la grecità classica e ne fonda i costumi e forse anche il genio.

È quindi naturale interrogarsi sulla microstoria della cucina Achea come grimaldello culturale per richiamare l’attenzione sullo scrigno, ancora chiuso, dei costumi e della cultura più elevata che questo antico popolo di naviganti e guerrieri ha lasciato ai Calabresi di oggi. Infatti, niente è più vicino allo spirito di un popolo che il quotidiano, che ne intesse la persona, in carne e ossa, e di seguito tutti gli aspetti sociali. Diventa interessante riflettere sul retaggio di cibi, bevande e abitudini di consumo e preparazione degli stessi che possono essere rimasti, per poi risalire attraverso essi, anche solo in parte, allo spirito che li accompagnava, che rende oggi gli Achei ancora simili a noi e che si dispiegava, infine, pienamente negli atti più alti della loro poesia e letteratura (Iliade ed Odissea) o della scienza e delle arti tecniche (dagli antichi medici Achei fino a Ippocrate).

TRADIZIONE ACHEA IN CUCINA

Dai testi ritrovati a Micene è stato possibile ricostruire che cosa mangiassero i Greci già nel II millennio a.C., in piena epoca Achea (altre fonti sono le commedie di Aristofane e alcune citazioni contenute nei Deipnosofisti dell’erudito Ateneo di Naucrati).

Vestigia del tempio acheo di Caulonia (Calabria)

Era una cucina caratterizzata da frugalità, da un’economia basata sull’agricoltura povera e naturalmente dalla “triade mediterranea”: frumento, olio d’oliva e vino.

Maschera di Agamennone, dal tesoro Miceneo di Heinrich Schliemann

Con l’orzo e con il grano si facevano focacce; c’erano ceci, fave; tra i frutti predominavano i fichi, che erano assai diffusi; ma le pitture parietali dei vasi ci mostrano anche pesche, mele, pere e melagrane.

Triade mediterranea: vino, olio, frumento

In ambito religioso, tra i cibi offerti agli Dei figuravano tributi (o offerte sacre dei vincitori di una battaglia) come carne, ricavata in genere da agnelli, capre e suini, ma anche miele e latte, olio e vino. In ambito quotidiano, i Greci antichi prestavano crescente attenzione all’alimentazione e quindi alla cucina, dato che diverse testimonianze di filosofi e medici dell’epoca vedono, fra tutti Ippocrate, sostenere la relazione fortissima tra i diversi tipi di cibo e lo stato di salute o malattia dell’uomo.

Portale della camera di Micene

In ambito militare, nell’Iliade gli eroi sono tratteggiati come mangiatori di carne arrostita (capretti, agnelli e manzo) insieme a pagnotte di pane e bevute di vino rosso, molto denso quest’ultimo e appena diluito con acqua e miele.

Portale a Micene

Di formaggio di capra, invece, di rado parlano sia l’Iliade che l’Odissea. Elemento importante era nell’Iliade ovunque l’olio, mentre erano quasi assenti il pesce, la frutta e le verdure.

Allevamenti ovini in Calabria

Nell’Odissea al contrario l’alimentazione appare più varia, arricchita com’è dalla coltivazione del grano e dell’orzo, unita agli ortaggi, alla consumazione di verdure e di insalate.

È solo dal V sec. a.C., tuttavia, che il pesce diventa il piatto principale dell’alimentazione greca, mentre rimane appunto ben raro presso gli Achei.

Pesce e verdura, antico rituale

COTTURA E CONSUMO DEL CIBO

Il tipico metodo di cottura acheo è la brace, anche se in seguito compaiono altri modi per cucinare le pietanze. Infatti, gli strumenti da cucina che si useranno in seguito sono vari e simili a quelli che si utilizzano anche oggi, mentre in epoca achea per zuppe e torte ci si serviva di tortiere di bronzo,

Tortiera bronzea, esemplare moderno

per le fritture di pentole simili a padelle e per le bevute dei simposi del rhyton (un boccale grande e imponente).

Boccale rituale del Rhyton

Il pane si cuoceva ancora con farine di farro e segale. Per i dolci vi era l’uso di preparare focacce impastate con fichi, miele, latte; a pranzo si mangiavano pappe di cereali, mescolate con legumi, formaggio, olio e verdure, così abbondanti e variati da far meritare in una commedia ai Greci antichi l’appellativo di “mangiatori di foglie”.

Farine di farro e di segala

È invece singolare che l’olivo e la vite, spesso associati agli Achei e ai Greci in generale come loro palma e segno di distinzione non fossero affatto originari della Grecia. Al contrario, queste cultivar giunsero agli Achei dai Fenici e dai commercianti della Siria e della Palestina, a cui erano noti da un’antichità più remota.

L’olivo ebbe da allora una grande diffusione presso questi remoti antenati, anche in Calabria, e fu protetto da apposite leggi.

Ulivi, atmosfera specifica della civiltà achea

Era infatti un albero sacro, con i cui esemplari si rimboschivano i terreni brulli. Era un obbligo assoluto, anzi, sostituire gli alberi abbattuti con nuove piantagioni. D’altro lato, del vino si parla spesso nei poemi omerici e non mancava mai nelle offerte votive, nei banchetti, nelle feste in onore di Dioniso. Divenne in poco tempo uno dei prodotti maggiormente esportati: era trasportato via mare in grandi anfore, o via terra in otri sul dorso di muli o asini.

Quanto al modo di consumare i cibi: Si mangiava con le mani, le posate erano sconosciute sulla tavola, ma di adoperavano solo kylikes (coppe svasate), con le quali si bevevo il vino.

Coppa kylikes

Inoltre, per mescolare il vino (mai consumato puro, ma sempre diluito o con acqua o con miele) contenuto nei crateri si utilizzava il ciato, un mestolo che i coppieri recavano appeso al mignolo e che impiegavano anche per misurare la diluizione del vino.

Vite piantata ad alberello

A casa i Greci consumavano tre o quattro pasti al giorno. La colazione, ἀκρατισμός (akratismos), consisteva in pane d’orzo immerso nel vino, accompagnato da fichi o olive, oppure si mangiavano dolci chiamati τηγανίτης (tēganitēs), cotti in una sorta di padella τάγηνον (tagēnon, forse antesignano del quotidiano “tegamino”).

Colazione (ἀκρατισμός) e pranzo (ἄριστον) achei

Altro tipo di dolce a colazione era lo σταιτίτης (staititēs) fatto di farina o di pasta di farro. Ateneo di Naucrati parla di staititas ricoperti di miele, sesamo e formaggio.

A pranzo si mangiava velocemente (in greco antico: ἄριστον, ariston), intorno a mezzogiorno o nel primo pomeriggio. La cena (in greco antico: δεῖπνον, deipnon) era il pasto principale dell’intera giornata e veniva generalmente consumata al tramonto. 

Quanto di più simile alle nostre abitudini attuali!

I Greci normalmente mangiavano stando seduti sulle sedie (klismos), mentre i letti erano utilizzati solo per i banchetti.

Ricostruzione del klismos

Delle pagnotte di pane piatto venivano usate come piatti, ma le ciotole di terracotta erano più comuni. I piatti divennero più raffinati nel tempo e nel periodo successivo erano talvolta realizzati con metalli preziosi o in vetro. L’uso della forchetta era sconosciuto, solo i coltelli (in comune) venivano usati per tagliare la carne, e i cucchiai per le zuppe e il brodo.

Talvolta venivano usati pezzi di pane (in greco antico: ἀπομαγδαλία, apomagdalia) al posto del cucchiaio o come tovagliolo, per pulirsi le dita.

Rappresentazione vascolare del klismos

FRUTTA E VERDURA

I cereali degli Achei, conditi con l’opson (in greco antico ὄψον), una “salsa o condimento”, erano accompagnati a cavolo, cipolla, lenticchie, cicerchia palustre, ceci, fave, piselli, cicerchia, ecc.

Questa verdura era preparata in forma di zuppa, bollita o sotto forma di purè (ἔτνος, etnos), e condita con olio d’oliva, aceto, erbe aromatiche o il c.d. gáron in greco antico γάρον, una salsa a base di pesce simile al latino “garum”.

Il gàron, il latino garum

Gli abitanti più poveri dovevano accontentarsi di legumi secchi. La zuppa di lenticchie (φακῆ, phakē) era il piatto tipico del lavoratore. Formaggio, aglio e cipolla erano il cibo tradizionale dei soldati.

La frutta, fresca o secca, e le noci venivano consumate a fine pasto. Particolarmente comuni erano i fichi, l’uva e il melograno. I fichi secchi venivano mangiati come antipasto o assieme al vino. In quest’ultimo caso, venivano spesso accompagnati da castagne, ceci e noci di faggio abbrustolite.

Il VINO

Il vino veniva generalmente allungato con l’acqua. Il consumo di akraton o “vino non miscelato”, anche se noto in quanto praticato, era raro.    

Il partecipante al banchetto si avvicinava ad un krater per riempire di vino la sua kylix (già menzionato più su, e consistente in una sorta di coppa o bacile piuttosto piccolo), il vino veniva anche usato per scopi medicinali, si dice che il vino acheo potesse indurre l’aborto.

Vaso per vino, krater

Un oggetto piuttosto abituale e simile al nostro moderno bicchiere era lo skyphos, realizzato in legno, terracotta o metallo.

E’ anche menzionato nelle fonti il kothon, quello che divenne il tipico calice spartano che aveva il vantaggio militare di nascondere il colore dell’acqua alla vista intrappolando il fango nel bordo.

bicchiere, skyphos

Per la libagione più comune veniva usato, come detto la kylix, che nei banchetti consentiva di prendere il vino contenuto in un kantharos (un recipiente profondo con maniglie), o il rhyton, un imponente corno potorio, spesso plasmato nella forma di una testa umana o di animale.

LA BEVANDA DEL KYKEON

I Greci antichi bevevano anche il c.d. kykeon (κυκεών, dal verbo kykaō, κυκάω, “scuotere, miscelare”), che era sia una bevanda che un pasto. Era una pappa d’orzo, a cui venivano aggiunte acqua e erbe aromatiche. Nell’Iliade, la bevanda conteneva anche formaggio di capra grattugiato, mentre nell’Odissea, Circe aggiunge, per Ulisse, ad essa del miele e una pozione magica.

Preparazione del Kykeon

Negli Inni omerici a Demetra, la dea rifiuta del vino rosso ma accetta un kykeon fatto con acqua, farina e menta.

Utilizzata come bevanda rituale nei Misteri Eleusini, il kykeon era anche una bevanda molto popolare, soprattutto nelle campagne: Teofrasto, nei suoi personaggi, descrive un contadino rozzo che dopo aver bevuto tanto kykeon disturba i componenti dell’Assemblea con il suo cattivo alito.

Era anche considerato un buon digestivo ed era raccomandato a chi avesse mangiato troppa frutta secca.

IL PANE ACHEO

I cereali, la vera base della dieta degli Achei, erano il frumento (σῖτος, sitos) e l’orzo. Per ottenere il pane si realizzava una pappa di chicchi per immersione, la si macinava e riduceva in farina (in greco antico: ἀλείατα, aleiata), poi si impastava il tutto in pani (ἄρτος, artos) o focacce, semplici o miscelate a formaggio o miele. L’impasto lievitava con il c.d. νίτρον, nitron, cioè un lievito di vino.

Grano e orzo (orzo distinguibile nell’angolo inferiore sinistro)

Il pane era cotto in un forno di argilla (ἰπνός, ipnos) oppure con carboni accesi sul pavimento.

Il pane d’orzo era, invece, più difficile da panificare, ancora oggi ne rimangono tracce in Calabria, un pane nero ed integrale, apparentemente rozzo, ma nutriente e pesante (perché ricco d’acqua). Anche a questo pane nero, oggi dopo 3000 anni ancora, si aggiunge formaggio o miele. In alternativa l’orzo era arrostito prima di essere macinato, producendo una farina grossolana (ἄλφιτα, alphita) che veniva utilizzata per fare il maza(μᾶζα), il piatto greco di base.

Il maza poteva essere cotto o crudo, come un brodo, o trasformato in gnocchi o focacce.

TRACCE ACHEE IN CALABRIA: PANE NERO

In Aspromonte (zona montuosa della Calabria, all’estremo sud della regione), “u granu jermanu“, o “jermano”, è il nome dialettale della segale, coltivata fin dall’antichità più remota degli Achei.

Con questo cereale, lavorato come l’orzo per la panificazione si possono apprezzare le tracce culturali del menzionato passaggio acheo in Calabria. Anzi, con l’utilizzo di questo antico grano calabrese, – dalle tante proprietà benefiche, ricco di vitamine, sali minerali e fibre, – i calabresi producono un notissimo pane nero, dal sapore molto rustico, poco acido e dal profumo intenso.

Pane nero di segale Iermanu

Il grano Iermano era largamente utilizzato in tutto il Sud fino agli anni ’50. Con questo nome (Iermano o nella variante Jurmano) si identificava quella che in italiano si chiamava segale. Re-introdotto dai tedeschi durante la prima guerra mondiale per produrre alcol e pane, il grano Jurmano fu ben accolto in Calabria. Ed oggi dall’Aspromonte all’altopiano della Sila, vi sono ancora alcuni agricoltori che da oltre 50 anni portano avanti questa cultivar senza soluzione di continuità dal tempo degli stessi Achei!

Intanto, essendo la Calabria una terra piuttosto montuosa e quindi soggetta ad inverni molto rigidi, questa cultivar, di probabile remota origine achea, ha saputo re-adattarsi bene ai nostri climi invernali. Inoltre, non va dimenticato che, essendo un cereale molto resiliente, il grano jermanu cresce persino nel circolo polare artico e arriva fino a 4.000 metri di altitudine.

Ne viene fuori un pane nero molto gustoso, caratterizzato da una remota rusticità. Poi, a parte la sua particolarità storica ed il suo misterioso passato, è un cibo che presenta notevoli benefici salutari. Quelli del pane Jermanu sono, principalmente, secondo diverse ricerche scientifiche la capacità di fluidificare il sangue e quella di prevenire l’arteriosclerosi.

La farina di segale, chiamata in dialetto farina iermano o farina iurmano, spesso mescolata a farina di grano duro, è quindi l’ingrediente principale di un prodotto antichissimo, il suddetto pane nero. Un pane la cui produzione è molto laboriosa, lievitato con lievito madre, impastato alla sera e ricoperto fino all’indomani con coperte di lana.

Volta funeraria achea a Micene

Il giorno dopo, la preparazione inizia con forza e fatica, l’impasto di questo pane si rivela infatti denso e viscoso. A questo punto viene tagliato e cotto per un tempo lunghissimo, circa due ore e dopo la cottura si conserva per un tempo altrettanto lungo.