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Fari di Calabria

Il nostro progetto di promozione sociale come APS (Comunità Benedict) ha come passaggio ineludibile il recupero della memoria storica e civile della cultura mediterranea in Calabria. Cultura che la Calabria esprime in modo ormai tacito e quasi archeologicamente dimenticato, ma che può rivivere promuovendo il turismo verso i luoghi della memoria dell’universo mediterraneo, rammentato dalle sue stesse coste. Quelle che circa 4.000 anni fa erano già chiamate “Italia” (terra del mitico Re Italo) e poi offrirono riparo agli Achei, ai Fenici, alla Magna Grecia, ai Romani.

Lo storico Fernand Braudel nella sua fondamentale opera Il Mediterraneo (Lo Spazio, La Storia, Gli Uomini, Le Tradizioni)” si è interrogato così sul profondo senso di questa Cultura: “Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre.” Altrove, così l’Autore risponde alla domanda: “Il Mediterraneo è un insieme di vie marittime e terrestri, collegate tra loro, e quindi città che, dalle più modeste alle medie, alle maggiori si tengono tutte per mano. Strade e ancora strade, ovvero tutto un sistema di circolazione”.

Faro di Punta Palascia (Otranto)

La nostra iniziativa di promozione sociale intende mostrare, perciò, come la navigazione delle civiltà e delle culture da e verso la Calabria e le sue coste sia proprio il profondo senso dell’attrazione turistica verso il paese.

Supportata da queste validissime fonti storiche, dedicheremo il presente articolo ai Fari della Calabria. Proprio queste strutture esemplificano la bellezza del viaggio per mare attraverso il Mediterraneo e il suo profondo senso di sovrapposizione di civiltà, e racchiudono tutto il senso dell’offerta turistica calabrese.

OMBRE DEL MITO MEDITERRANEO: I FARI CALABRESI

Proprio i fari contengono misteriosamente condensata nella loro muta presenza il ricordo di questa grande eredità mediterranea, l’universo umano delle diverse civiltà che continuamente sotto l’occhio vigile delle loro luci notturne sono approdate in rade e porti sicuri…portando in dono il mondo della cultura, dei commerci, del sapere e il loro continuo lottare, confrontarsi e mediarsi.

Isolati lungo gli 800 Km di costa che delimitano la regione, i fari calabresi si trovano su litorali molto vari: ora, selvaggi come scogli e falesie a picco sul Tirreno, ora levigati e dolci come le dune ioniche.

I fari occupano nell’immaginario collettivo della civiltà mediterranea un posto particolare, perché hanno avuto il ruolo di guida e di garanzia delle sicurezza dei traffici e degli approdi, una sorta di segnaletica stradale per gli ultimi 3000 anni, nei sentieri marini del grande bacino interno delle nazioni che è il Mar Mediterraneo.

Faro di Capo Suvero (Calabria, Gizzeria)

Pertanto, non sono semplici edifici, – sono vere istituzioni che potrebbero raccontare secoli di Storia e di Civiltà stratificati.

Inoltre, sono presenze rassicuranti nella vita di tutti i giorni per i naviganti della Calabria. Sono infatti torri, che con tutta la loro imponenza racchiudono, come un simbolo o un’icona, tutto il senso della solitudine e della forza interiore di generazioni di marinai. Il loro travaglio quotidiano e lo sforzo di pescare, trasportare merci e fare cabotaggio.

La visibilità dei Fari dal mare aperto definisce, nello stesso tempo, tutto il fascino romantico di queste torri luminose, perché per essere visibili devono spesso essere costruite in punti impervi, difficili da raggiungere e svettanti. Non da poco è poi il profondo senso di altruismo che è manifestato dalla loro luce, dai loro specchi e cristalli, che proiettano nei naviganti la rosea prospettiva di un porto sicuro, di una posizione, di una certezza della terra sia in caso di nebbia che di pioggia.

Il loro valore, tuttavia, non diminuisce neanche durante il bel tempo, perché in una notte serena offre la sensibile presenza della terraferma e delle case a cui ritornare.

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I Fari calabresi non si sottraggono a questa missione o destino. Partendo da Scalea, nell’Alto Tirreno cosentino, già si fanno incontro ai turisti due svettanti edifici dipinti di rosso, con merlatura e fregi bianchi e una grande lanterna quadrata (attivi già dal 1922, come faro e alloggio del farista).

Poi si susseguono, lungo la costa cosentina, i fari di Capo Bonifati e quello antico di Paola, la “Torre del Soffio”, fortino di difesa del XVI secolo.

L’area costiera della provincia di Reggio Calabria è, invece, la “finis terrae” del piede Calabrese della penisola italiana. Qui, il nostro itinerario, prima del giro di boa, ci permette di guardare ammirati alla torre bianca su base nera del faro entro le mura del Castello Ruffo di Scilla; poi si possono guardare i lampi rossi del Faro di Punta Pezzo, a Villa San Giovanni; di seguito da una veloce imbarcazione si può rimirare il Faro di Capo dell’Armi; seguirà quello di Capo Spartivento e, infine, la torre luminosa di Punta Stilo, che getta i suoi raggi intermittenti sul Parco Archeologico dell’antica Kaulon, con le sue rovine giacenti da quattro millenni, a ricordare le origini di tutto l’occidente e dell’Europa.

Tra i fari che costellano le coste calabresi sul versante ionico possiamo, invece, citare in modo speciale quelli di Capo Colonna e di Punta Stilo, che fanno da sentinella alle coste sabbiose del litorale tra Crotone e Stilo. Entrambi occupano da millenni i promontori essenziali alla navigazione degli antichi Greci, Fenici e Achei, i quali, anziché lanciarsi in mare aperto, costeggiavano le linee di costa, svolgendo solo un comodo cabotaggio. Le reliquie fossili di questi antichi fari sono state lungamente studiate, come tra i più importanti siti della Magna Grecia, dal famoso Paolo Orsi (1859-1935), vero fondatore dell’archeologia calabrese.

La lunga trafila della navigazione sul versante ionico ci porta infine al Faro di Porto Vecchio, a Crotone, a quello di Capo Rizzuto, al già citato Capo Colonna, quest’ultimo capace di lanciare sfolgoranti lampi bianchi che illuminano a giorno il mare di Le Castella (KR).

Faro di Capo Spartivento (RC)

OCCASIONE PER IL TURISMO

Se i fari emanano solitudine, nel loro muto presentarsi nella distesa marina, tuttavia sono anche un segno della presenza umana, da cui sono abitati. Sono strutture infatti inscindibili da quelle dei guardiani, i veri custodi della luce per le rotte notturne dei naviganti, dato che a loro spetta o avviare i fari o sorvegliare la loro accensione automatica.

Da tempo, le torri di guardia, non contengono, dopo i progressi della tecnica, semplici falò di legna. Il fuoco è stato sostituito dal petrolio, dal gas, dall’elettricità, inoltre l’efficienza dei segnalatori luminosi è stata migliorata con sistemi di specchi concentrici, fino all’attuale automazione e al controllo da remoto.

Faro di Punta Palascia

Oggi resistono solo alcuni vecchi guardiani dei fari, ma sono ormai dei professionisti, dei lavoratori altamente specializzati che, forse, nell’immaginario, mantengono un po’ del fascino dei loro predecessori.

Molta storia è passata dall’ellenistico Pharos di Alessandria, una le sette meraviglie del mondo antico, sino alle costruzioni odierne, passando finanche per la Statua della Libertà, faro di New York dal 1902, mentre in Italia i fari più belli paesaggisticamente sono oggi, invece, il Faro di Punta Palascio ad Otranto e quello di Capri.

Faro di Capri e scorcio mediterraneo

La storia e la natura sono quindi ottimi motivi per guardare ai fari come occasioni di turismo. Si tratterebbe di un aspetto fondamentale, questo, anche per fare crescere la Calabria, per amarla e per svelarne le meraviglie, impensate anche da parte dei residenti che vi sono nati.

Sarebbe un‘occasione per tutti coloro che desiderano inoltrarsi nel connubio conoscenza/bellezza che promana dai fari e dal loro legame con l’archeologia.

I colori dei fari di oggi infatti sono un caleidoscopio di sensazioni per il turista. A parte le tracce archeologiche indissociabili dalla loro costruzione, i loro contorni ambientali variano dal color sabbia, bianco o dorato del litorale, allo smeraldo della vegetazione, al blu del mare. Anzi il mare, naturale sposo della costa, lambisce instancabilmente l’ambiente dei fari, ora accarezzandolo, ora stringendolo in abbracci impetuosi e spumeggianti. Il mare calabrese tra l’altro è composto di pietre pregiate: lo zaffiro, l’acqua marina, il turchese, la giada, l’ametista. I fondali, invece, offrono costanti giochi di luce e la purezza delle acque contribuisce a donare una varietà cromatica unica ai due mari del Tirreno e dello Ionio.

Il connubio fari-archeologia accompagna il turista da Capo Suvero fino a Punta Alice (KR), passando per i resti del Tempio di Apollo Aleo (V secolo), per concludersi sotto il Faro di Capo Trionto, a Rossano Calabro (CS), estremo punto dell’arco di costa cha dal Tirreno termina nello Ionio.  

E’ chiaro quindi come i comuni di Cirò Marina, Crotone, Isola Capo Rizzuto, Monasterace, Palizzi, Motta San Giovanni, Villa San Giovanni, Scilla, Ricadi, Gizzeria e Paola potrebbero avere dei benefici per il turismo.

Perché conoscendo i fari e la loro storia, il turismo potrebbe conoscere anche il territorio ai quali appartengono, la cui storia ed enogastronomia sono ancora un po’ esclusi dai circuiti turistici tradizionali.

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Il seguente excursus dei principali fari calabresi si muove dal Nord del Tirreno allo Ionio, iniziando dalla torre di Capo Suvero e terminando con quella di Punta Alice.

FARO DI CAPO SUVERO

Il nostro itinerario inizia tra i fari della Calabria, soffermandosi sul tratto catanzarese di Capo Suvero dove, accanto a una torre poligonale più antica, svetta quella quadrata di 25 metri.

Faro di Capo Suvero

Nei dintorni solo alcune torri di avvistamento ormai diroccate, che mantengono il fascino degli avvistamenti saraceni. Il punto è anche il tratto di minore estensione della Calabria.

FARO DI CAPO VATICANO (COSTA DEGLI DEI)

La Costa degli Dei ha un nome maggiormente evocativo, in termini di miti e leggende mediterranee.

La notte il faro accoglie le imbarcazioni coi bagliori notturni dei fari di Vibo Valentia e Capo Vaticano (VV), due torri cilindriche immerse in panorami mozzafiato.

Faro di Capo Vaticano (Vibo)

Ma, in particolare, il faro di Capo Vaticano è uno dei pochi fari che non è oscurato verso terra, per cui anche la gente del luogo riesce ad apprezzare il suo fascio di luce durante la notte.

Il faro è in posizione suggestiva a pochi metri dallo strapiombo sugli scogli di Ricadi, in vista delle incantevoli Isole Eolie.

FARO DI SCILLA

Il faro è costituito da una torre di circa 4 metri di altezza. E’ ospitato dalla rupe di Scilla, una massa rocciosa che si staglia molto alta a picco sul mare.

Faro di Scilla (RC)

Essendo posto dentro il castello dei Conti Ruffo, è un invito naturale a visitare turisticamente Scilla, una delle più rinomate destinazioni del Mar Tirreno. Infatti, dal faro si gode la vista di Scilla durante il tramonto, un tratto della notissima costa viola, da cui osservando il mare, si può rievocare il mito omerico di Scilla e Cariddi.

FARO DI PUNTA PEZZO

Questo faro è immerso nella città e con una splendida vista verso la Sicilia. E’ visitabile mediante una scala a chiocciola interna ed è un faro moderno, con un quadrante totalmente rosso.

Faro di Punta Pezzo (RC)

Il faro di Punta Pezzo in Calabria è gemellato con quello di Capo Peloro in Sicilia. Infatti, entrambi indicano l’ingresso nello Stretto di Messina: il primo con segnalazione di colore rosso, il secondo verde.

FARO DI PUNTA D’ARMI

Il Faro di Capo dell’Armi ha luci bianche intermittenti, è eretto su una torre ottagonale a strapiombo sul mar Ionio nella Città di Motta San Giovanni (Reggio Calabria) e risulta essere il più antico tra i fari della provincia reggina. Infatti, il più recente è il Faro di Punta Pezzo a Villa San Giovanni.

Fa da premessa, in direzione nord, al Faro di Capo Spartivento ed ancora, sempre in provincia di Reggio Calabria, al Faro di Punta Stilo che si trova sul promontorio omonimo, nel comune di Monasterace e, infine, al già menzionato Faro di Scilla che si trova su una terrazza del castello Ruffo di Scilla sullo stretto di Messina (riferimento obbligato per le navi che imboccano lo Stretto da Nord).

Faro di Punta D’Armi (RC)

Il faro di Punta D’Armi offre una magnifica visuale sull’Etna, il vulcano più alto d’Europa ed è poco distante dalla panoramica strada statele (SS) 106 a strapiombo sullo Ionio.

FARO DI CAPO SPARTIVENTO

E’ una costruzione bianca, a due piani, risalente al 1867, sormontata da una torre quadrata alta 19 metri, che si eleva sul mare per 81 metri, e che lancia una luce visibile da 11 a 30 miglia.

Il Faro di Capo Spartivento in Calabria è tra i luoghi più a Sud del Sud, che illumina la distesa marina da oltre un secolo e mezzo. Si trova a Capo Spartivento, al confine tra Palizzi e Brancaleone, sul litorale ionico della città metropolitana di Reggio Calabria. E qui, lungo la Strada Statale 106 piena del profumo dei gelsomini, si trova anche una lapide, che sovrasta l’ingresso della torre su base quadrangolare con edificio ad un piano, e riporta la posizione del faro in base al meridiano di Parigi, passante per il centro dell’Osservatorio della capitale francese (2° 20′13,82″a est di Greenwich).

Il faro è stato rinnovato internamente ed esternamente nel 1910. Dal 1935 è alimentato ad elettricità, è meccanizzato dal 1995.

Capo Spartivento

Il capo ha persino una storia intrecciata con il mito; il suo nome antico era infatti Heracleum Promontorium, o Erculeum Promontorium (il promontorio di Eracle, Ηράκλειον ἃκρα) e pare che Ercole, l’eroe figlio di Zeus e Alcmena, abbia riposato qui dalle fatiche ordinate da Euristeo. La zona è anche il confine antico tra le due colonie Magno greche di Rhegion e Lokroi Epizephirioi. Cita il faro anche il geografo greco Strabone (Geografia, VI, 1, 7): “Segue poi il promontorio di Eracle, che è l’ultimo ad essere rivolto verso Mezzogiorno: infatti chi doppia questo capo naviga direttamente spinto dal Libeccio, fino al promontorio Iapigio; poi la rotta inclina sempre più verso Settentrione e verso Occidente sino al golfo Ionio (Parte meridionale dell’odierno mar Adriatico). Dopo il promontorio di Eracle si trova quello di Locri, detto Zefirio, che ha il porto protetto dai venti occidentali e da ciò ne deriva anche il nome“.

Altra leggenda cristiana, invece, narra dell’eremita Sant’Elmo, che viveva di questua in una grotta poco lontana e che, dovendo provvedere anche alle sette orfane di suo fratello, riceve la visita miracolosa di San Cristoforo. Infatti l’eremita non sapeva come sfamare le nipoti e San Cristoforo gli ordina di piantare, a mò di faro, una lanterna sugli scogli, per salvare i poveri contrabbandieri che andavano per mare. Da quella sera, Sant’Elmo, fece come gli era stato detto e ricominciata la questua, non passò giorno che non tornasse nella grotta con le bisacce piene di ogni bene, dono dei contrabbandieri grati per l’aiuto.

La leggenda è dunque che, dopo tanti secoli dalla sua morte, Sant’Elmo, scenda ancora dal cielo presso Capo Spartivento con la lanterna accesa e salvi le navi che stanno per naufragare, ormai custode del promontorio e del bianco faro di Capo Spartivento.

FARO DI PUNTA STILO

Il faro di Punta Stilo, come quello di Capo Colonna, è un luogo intriso di storia e pertanto magico. La sua torre svetta su una collinetta che si affaccia sugli scavi archeologici dell’antica Kaulon, lungo il percorso della statale 106, non lontano dal museo archeologico di Monasterace.

Il faro illumina i resti della colonia greca di Punta Stilo, un luogo dove trovò le sue origini Kaulon (oggi detta Caulonia) in un momento indeterminato del VII secolo a.C.

Faro di Punta Stilo (RC)

Della colonia greca rimangono alcuni blocchi abitativi di età ellenistica e pregevoli scavi di epoca achea nella vicina Monasterace.

FARO DI CAPO COLONNA (CROTONE)

Il faro è ornato presso Capo Colonna dalla sede del santuario greco di Hera Lacinia, che a breve distanza dalla costruzione marina è uno dei più famosi siti archeologici del Mediterraneo.

Faro di Capo Colonna (KR)

Il tempio, per così dire sorvegliato dalla torre luminosa del capo, è esso stesso un faro di cultura di immenso valore per la civiltà occidentale, dato che testimonia in modo visibilissimo il passaggio della cultura greca da Crotone, con la sua pregevole colonna dorica e con la comprovata presenza di Pitagora in epoca magno-greca (e la sua fondamentale scuola matematica).

Il museo poco discosto contiene infatti un’abbondanza di reperti, che, per qualità e varietà di preziosi oggetti qui venuti alla luce, prova la devozione degli antichi Crotonesi alla dea nel V secolo a.C.

Capo Colonna (vista ravvicinata)

FARO DI PUNTA ALICE

Chiude l’excursus dei fari calabresi iI faro di Punta Alice, il quale sembra piuttosto una cattedrale nel deserto con la sua costruzione, che si erge a circa 200 metri di distanza dalla costa.

Punta Alice ed il suo faro

La spiaggia è lontana, ma dal fondale in barca è possibile apprezzare tutto lo splendore dello Ionio, un invito al turismo, ad attraversare il mare calabrese, con i suoi colori cangianti dallo zaffiro all’acqua marina, al turchese, la giada, l’ametista…

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Cultura Enogastronomia

Cucina Achea in Calabria

La Calabria è una delle prime colonie degli Achei, il popolo che precede la grecità classica e ne fonda i costumi e forse anche il genio.

È quindi naturale interrogarsi sulla microstoria della cucina Achea come grimaldello culturale per richiamare l’attenzione sullo scrigno, ancora chiuso, dei costumi e della cultura più elevata che questo antico popolo di naviganti e guerrieri ha lasciato ai Calabresi di oggi. Infatti, niente è più vicino allo spirito di un popolo che il quotidiano, che ne intesse la persona, in carne e ossa, e di seguito tutti gli aspetti sociali. Diventa interessante riflettere sul retaggio di cibi, bevande e abitudini di consumo e preparazione degli stessi che possono essere rimasti, per poi risalire attraverso essi, anche solo in parte, allo spirito che li accompagnava, che rende oggi gli Achei ancora simili a noi e che si dispiegava, infine, pienamente negli atti più alti della loro poesia e letteratura (Iliade ed Odissea) o della scienza e delle arti tecniche (dagli antichi medici Achei fino a Ippocrate).

TRADIZIONE ACHEA IN CUCINA

Dai testi ritrovati a Micene è stato possibile ricostruire che cosa mangiassero i Greci già nel II millennio a.C., in piena epoca Achea (altre fonti sono le commedie di Aristofane e alcune citazioni contenute nei Deipnosofisti dell’erudito Ateneo di Naucrati).

Vestigia del tempio acheo di Caulonia (Calabria)

Era una cucina caratterizzata da frugalità, da un’economia basata sull’agricoltura povera e naturalmente dalla “triade mediterranea”: frumento, olio d’oliva e vino.

Maschera di Agamennone, dal tesoro Miceneo di Heinrich Schliemann

Con l’orzo e con il grano si facevano focacce; c’erano ceci, fave; tra i frutti predominavano i fichi, che erano assai diffusi; ma le pitture parietali dei vasi ci mostrano anche pesche, mele, pere e melagrane.

Triade mediterranea: vino, olio, frumento

In ambito religioso, tra i cibi offerti agli Dei figuravano tributi (o offerte sacre dei vincitori di una battaglia) come carne, ricavata in genere da agnelli, capre e suini, ma anche miele e latte, olio e vino. In ambito quotidiano, i Greci antichi prestavano crescente attenzione all’alimentazione e quindi alla cucina, dato che diverse testimonianze di filosofi e medici dell’epoca vedono, fra tutti Ippocrate, sostenere la relazione fortissima tra i diversi tipi di cibo e lo stato di salute o malattia dell’uomo.

Portale della camera di Micene

In ambito militare, nell’Iliade gli eroi sono tratteggiati come mangiatori di carne arrostita (capretti, agnelli e manzo) insieme a pagnotte di pane e bevute di vino rosso, molto denso quest’ultimo e appena diluito con acqua e miele.

Portale a Micene

Di formaggio di capra, invece, di rado parlano sia l’Iliade che l’Odissea. Elemento importante era nell’Iliade ovunque l’olio, mentre erano quasi assenti il pesce, la frutta e le verdure.

Allevamenti ovini in Calabria

Nell’Odissea al contrario l’alimentazione appare più varia, arricchita com’è dalla coltivazione del grano e dell’orzo, unita agli ortaggi, alla consumazione di verdure e di insalate.

È solo dal V sec. a.C., tuttavia, che il pesce diventa il piatto principale dell’alimentazione greca, mentre rimane appunto ben raro presso gli Achei.

Pesce e verdura, antico rituale

COTTURA E CONSUMO DEL CIBO

Il tipico metodo di cottura acheo è la brace, anche se in seguito compaiono altri modi per cucinare le pietanze. Infatti, gli strumenti da cucina che si useranno in seguito sono vari e simili a quelli che si utilizzano anche oggi, mentre in epoca achea per zuppe e torte ci si serviva di tortiere di bronzo,

Tortiera bronzea, esemplare moderno

per le fritture di pentole simili a padelle e per le bevute dei simposi del rhyton (un boccale grande e imponente).

Boccale rituale del Rhyton

Il pane si cuoceva ancora con farine di farro e segale. Per i dolci vi era l’uso di preparare focacce impastate con fichi, miele, latte; a pranzo si mangiavano pappe di cereali, mescolate con legumi, formaggio, olio e verdure, così abbondanti e variati da far meritare in una commedia ai Greci antichi l’appellativo di “mangiatori di foglie”.

Farine di farro e di segala

È invece singolare che l’olivo e la vite, spesso associati agli Achei e ai Greci in generale come loro palma e segno di distinzione non fossero affatto originari della Grecia. Al contrario, queste cultivar giunsero agli Achei dai Fenici e dai commercianti della Siria e della Palestina, a cui erano noti da un’antichità più remota.

L’olivo ebbe da allora una grande diffusione presso questi remoti antenati, anche in Calabria, e fu protetto da apposite leggi.

Ulivi, atmosfera specifica della civiltà achea

Era infatti un albero sacro, con i cui esemplari si rimboschivano i terreni brulli. Era un obbligo assoluto, anzi, sostituire gli alberi abbattuti con nuove piantagioni. D’altro lato, del vino si parla spesso nei poemi omerici e non mancava mai nelle offerte votive, nei banchetti, nelle feste in onore di Dioniso. Divenne in poco tempo uno dei prodotti maggiormente esportati: era trasportato via mare in grandi anfore, o via terra in otri sul dorso di muli o asini.

Quanto al modo di consumare i cibi: Si mangiava con le mani, le posate erano sconosciute sulla tavola, ma di adoperavano solo kylikes (coppe svasate), con le quali si bevevo il vino.

Coppa kylikes

Inoltre, per mescolare il vino (mai consumato puro, ma sempre diluito o con acqua o con miele) contenuto nei crateri si utilizzava il ciato, un mestolo che i coppieri recavano appeso al mignolo e che impiegavano anche per misurare la diluizione del vino.

Vite piantata ad alberello

A casa i Greci consumavano tre o quattro pasti al giorno. La colazione, ἀκρατισμός (akratismos), consisteva in pane d’orzo immerso nel vino, accompagnato da fichi o olive, oppure si mangiavano dolci chiamati τηγανίτης (tēganitēs), cotti in una sorta di padella τάγηνον (tagēnon, forse antesignano del quotidiano “tegamino”).

Colazione (ἀκρατισμός) e pranzo (ἄριστον) achei

Altro tipo di dolce a colazione era lo σταιτίτης (staititēs) fatto di farina o di pasta di farro. Ateneo di Naucrati parla di staititas ricoperti di miele, sesamo e formaggio.

A pranzo si mangiava velocemente (in greco antico: ἄριστον, ariston), intorno a mezzogiorno o nel primo pomeriggio. La cena (in greco antico: δεῖπνον, deipnon) era il pasto principale dell’intera giornata e veniva generalmente consumata al tramonto. 

Quanto di più simile alle nostre abitudini attuali!

I Greci normalmente mangiavano stando seduti sulle sedie (klismos), mentre i letti erano utilizzati solo per i banchetti.

Ricostruzione del klismos

Delle pagnotte di pane piatto venivano usate come piatti, ma le ciotole di terracotta erano più comuni. I piatti divennero più raffinati nel tempo e nel periodo successivo erano talvolta realizzati con metalli preziosi o in vetro. L’uso della forchetta era sconosciuto, solo i coltelli (in comune) venivano usati per tagliare la carne, e i cucchiai per le zuppe e il brodo.

Talvolta venivano usati pezzi di pane (in greco antico: ἀπομαγδαλία, apomagdalia) al posto del cucchiaio o come tovagliolo, per pulirsi le dita.

Rappresentazione vascolare del klismos

FRUTTA E VERDURA

I cereali degli Achei, conditi con l’opson (in greco antico ὄψον), una “salsa o condimento”, erano accompagnati a cavolo, cipolla, lenticchie, cicerchia palustre, ceci, fave, piselli, cicerchia, ecc.

Questa verdura era preparata in forma di zuppa, bollita o sotto forma di purè (ἔτνος, etnos), e condita con olio d’oliva, aceto, erbe aromatiche o il c.d. gáron in greco antico γάρον, una salsa a base di pesce simile al latino “garum”.

Il gàron, il latino garum

Gli abitanti più poveri dovevano accontentarsi di legumi secchi. La zuppa di lenticchie (φακῆ, phakē) era il piatto tipico del lavoratore. Formaggio, aglio e cipolla erano il cibo tradizionale dei soldati.

La frutta, fresca o secca, e le noci venivano consumate a fine pasto. Particolarmente comuni erano i fichi, l’uva e il melograno. I fichi secchi venivano mangiati come antipasto o assieme al vino. In quest’ultimo caso, venivano spesso accompagnati da castagne, ceci e noci di faggio abbrustolite.

Il VINO

Il vino veniva generalmente allungato con l’acqua. Il consumo di akraton o “vino non miscelato”, anche se noto in quanto praticato, era raro.    

Il partecipante al banchetto si avvicinava ad un krater per riempire di vino la sua kylix (già menzionato più su, e consistente in una sorta di coppa o bacile piuttosto piccolo), il vino veniva anche usato per scopi medicinali, si dice che il vino acheo potesse indurre l’aborto.

Vaso per vino, krater

Un oggetto piuttosto abituale e simile al nostro moderno bicchiere era lo skyphos, realizzato in legno, terracotta o metallo.

E’ anche menzionato nelle fonti il kothon, quello che divenne il tipico calice spartano che aveva il vantaggio militare di nascondere il colore dell’acqua alla vista intrappolando il fango nel bordo.

bicchiere, skyphos

Per la libagione più comune veniva usato, come detto la kylix, che nei banchetti consentiva di prendere il vino contenuto in un kantharos (un recipiente profondo con maniglie), o il rhyton, un imponente corno potorio, spesso plasmato nella forma di una testa umana o di animale.

LA BEVANDA DEL KYKEON

I Greci antichi bevevano anche il c.d. kykeon (κυκεών, dal verbo kykaō, κυκάω, “scuotere, miscelare”), che era sia una bevanda che un pasto. Era una pappa d’orzo, a cui venivano aggiunte acqua e erbe aromatiche. Nell’Iliade, la bevanda conteneva anche formaggio di capra grattugiato, mentre nell’Odissea, Circe aggiunge, per Ulisse, ad essa del miele e una pozione magica.

Preparazione del Kykeon

Negli Inni omerici a Demetra, la dea rifiuta del vino rosso ma accetta un kykeon fatto con acqua, farina e menta.

Utilizzata come bevanda rituale nei Misteri Eleusini, il kykeon era anche una bevanda molto popolare, soprattutto nelle campagne: Teofrasto, nei suoi personaggi, descrive un contadino rozzo che dopo aver bevuto tanto kykeon disturba i componenti dell’Assemblea con il suo cattivo alito.

Era anche considerato un buon digestivo ed era raccomandato a chi avesse mangiato troppa frutta secca.

IL PANE ACHEO

I cereali, la vera base della dieta degli Achei, erano il frumento (σῖτος, sitos) e l’orzo. Per ottenere il pane si realizzava una pappa di chicchi per immersione, la si macinava e riduceva in farina (in greco antico: ἀλείατα, aleiata), poi si impastava il tutto in pani (ἄρτος, artos) o focacce, semplici o miscelate a formaggio o miele. L’impasto lievitava con il c.d. νίτρον, nitron, cioè un lievito di vino.

Grano e orzo (orzo distinguibile nell’angolo inferiore sinistro)

Il pane era cotto in un forno di argilla (ἰπνός, ipnos) oppure con carboni accesi sul pavimento.

Il pane d’orzo era, invece, più difficile da panificare, ancora oggi ne rimangono tracce in Calabria, un pane nero ed integrale, apparentemente rozzo, ma nutriente e pesante (perché ricco d’acqua). Anche a questo pane nero, oggi dopo 3000 anni ancora, si aggiunge formaggio o miele. In alternativa l’orzo era arrostito prima di essere macinato, producendo una farina grossolana (ἄλφιτα, alphita) che veniva utilizzata per fare il maza(μᾶζα), il piatto greco di base.

Il maza poteva essere cotto o crudo, come un brodo, o trasformato in gnocchi o focacce.

TRACCE ACHEE IN CALABRIA: PANE NERO

In Aspromonte (zona montuosa della Calabria, all’estremo sud della regione), “u granu jermanu“, o “jermano”, è il nome dialettale della segale, coltivata fin dall’antichità più remota degli Achei.

Con questo cereale, lavorato come l’orzo per la panificazione si possono apprezzare le tracce culturali del menzionato passaggio acheo in Calabria. Anzi, con l’utilizzo di questo antico grano calabrese, – dalle tante proprietà benefiche, ricco di vitamine, sali minerali e fibre, – i calabresi producono un notissimo pane nero, dal sapore molto rustico, poco acido e dal profumo intenso.

Pane nero di segale Iermanu

Il grano Iermano era largamente utilizzato in tutto il Sud fino agli anni ’50. Con questo nome (Iermano o nella variante Jurmano) si identificava quella che in italiano si chiamava segale. Re-introdotto dai tedeschi durante la prima guerra mondiale per produrre alcol e pane, il grano Jurmano fu ben accolto in Calabria. Ed oggi dall’Aspromonte all’altopiano della Sila, vi sono ancora alcuni agricoltori che da oltre 50 anni portano avanti questa cultivar senza soluzione di continuità dal tempo degli stessi Achei!

Intanto, essendo la Calabria una terra piuttosto montuosa e quindi soggetta ad inverni molto rigidi, questa cultivar, di probabile remota origine achea, ha saputo re-adattarsi bene ai nostri climi invernali. Inoltre, non va dimenticato che, essendo un cereale molto resiliente, il grano jermanu cresce persino nel circolo polare artico e arriva fino a 4.000 metri di altitudine.

Ne viene fuori un pane nero molto gustoso, caratterizzato da una remota rusticità. Poi, a parte la sua particolarità storica ed il suo misterioso passato, è un cibo che presenta notevoli benefici salutari. Quelli del pane Jermanu sono, principalmente, secondo diverse ricerche scientifiche la capacità di fluidificare il sangue e quella di prevenire l’arteriosclerosi.

La farina di segale, chiamata in dialetto farina iermano o farina iurmano, spesso mescolata a farina di grano duro, è quindi l’ingrediente principale di un prodotto antichissimo, il suddetto pane nero. Un pane la cui produzione è molto laboriosa, lievitato con lievito madre, impastato alla sera e ricoperto fino all’indomani con coperte di lana.

Volta funeraria achea a Micene

Il giorno dopo, la preparazione inizia con forza e fatica, l’impasto di questo pane si rivela infatti denso e viscoso. A questo punto viene tagliato e cotto per un tempo lunghissimo, circa due ore e dopo la cottura si conserva per un tempo altrettanto lungo.